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“Basta con i tamponi! Troppa violenza, insulti e minacce”: la protesta di una farmacista contro i no-vax dopo le continue tensioni nella sua farmacia

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Arriva da una farmacista che ha perso suo padre Claudio, morto a 65 anni per il Covid, e che opera in una farmacia di Milano, la protesta contro i no-vax: Cristina Longhini ha deciso di non eseguire più i tamponi dopo aver affrontato continui insulti e reazioni di malcontento, da parte dei non vaccinati che per lavorare devono sottoporsi a tampone. Con la sua testimonianza ha denunciato il clima di tensione affrontato per settimane, messo in atto dai no-vax, ogni volta che dovevano sottoporsi al test. Dopo aver subito proteste, reazioni di rabbia ed insulti, Cristina Longhini ha detto basta, annunciando che presso la farmacia Ca’ Granda di Niguarda non si eseguono più tamponi bensì la terza dose del vaccino anti Covid.

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Nel suo sfogo la 40enne, originaria di Bergamo e consigliera del Movimento italiano farmacisti collaboratori ha denunciato il clima di odio e di tensione nel quale si è imbattuta dalla fine settembre: “C’era astio nei confronti della campagna vaccinale e anche nei nostri confronti. C’erano persone che ci dicevano: ‘Cosa pensate, questo vaccino funzioni?’ Oppure: ‘Ci farà morire tutti, ci farà venire il cancro, fra dieci anni voi vaccinati morirete e rimarremo noi, ci sono dentro i microchip, il 5G. Oppure: ‘Voi non pagate il vaccino e noi dobbiamo pagare il tampone, dovreste farlo gratis, ci rubate i soldi’”.

La farmacista non fa tamponi ai no-vax

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La farmacista che non fa più tamponi ai no-vax

La farmacista lombarda ha anche raccontato di aver subito insulti ed offese – qualcuno le ha addirittura augurato la morte – da parte dei no-vax costretti a sottoporsi al tampone perché non credono nell’efficacia del vaccino. Una protesta esacerbata a suo parere dopo l’obbligatorietà del Green pass nei luoghi di lavoro.

La farmacista ha maturato la decisione di non eseguire più tamponi dopo aver raggiunto il limite della sopportazione con i suoi colleghi, come ha raccontato a Diritto e rovescio: “Non sapevano che dopo la prima dose servono due settimane per il Green pass e dovevano comunque fare il tampone, quindi pretendevano il passaporto vaccinale. […] La mia titolare e la mia collega conoscevano mio padre, sanno cosa abbiamo passato a Bergamo e poi hanno vissuto i drammi della seconda ondata a Milano. Abbiamo deciso che non possiamo fare i tamponi a chi è così insensibile: umanamente era pesante affrontare queste persone”.

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Nel suo sfogo ha evocato la tragedia familiare che l’ha colpita, per poi ribadire la sicurezza della vaccinazione: “Io ho avuto mio padre sui camion dell’esercito a Bergamo e mi sento dire che quei camion erano dei fotomontaggi e mio padre in realtà non è morto di Covid. Non capisco come faccia la gente ad essere così disinformata. Non sanno che proprio perché non inietti niente di irreversibile nell’organismo l’Rna si degrada e la risposta anticorpale diminuisce, e in certe categorie lo fa più in fretta. Invece pensano che il Green pass violi il loro diritto al lavoro ma si dimenticano di quello che era successo lo scorso anno […]”.

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